L'Espresso: «Sull'aereo di Stato c'era un bimbo rubato» La denuncia di una mamma alla Camera
«Sull'aereo di Stato c'era un bimbo rubato» La denuncia di una mamma alla Camera
Adottato con l'ente Aibi in Congo. Era sul famoso volo del 2014 con la ministra Boschi. Le famiglie raccontano: minacce e botte ai bambini prima della partenza per l'Italia. La versione di Gentiloni sull'incarico alla moglie del procuratore di Milano che sta indagando sul traffico di minori
I bambini in volo sull'aereo di Stato da Kinshasa a Roma nel 2014 (foto Ansa)
I bambini in volo sull'aereo di Stato da Kinshasa a Roma nel 2014 (foto Ansa)
Perfino sull'aereo di Stato dell'allora ministra Maria Elena Boschi, l'associazione Aibi sarebbe riuscita a infilare un bimbo sottratto ai suoi genitori naturali. Il volo è quello famoso del 28 maggio 2014, da Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, a Roma. È il giorno dell'arrivo di trentuno bambini adottati in Italia e accompagnati dall'attuale sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio, all'oscuro delle origini del piccolo così come lo erano tutte le altre autorità. Lo racconta in un'aula della Camera, davanti a una platea ammutolita, Paola Zignone, mamma adottiva per mesi ignara dei raggiri ed ex volontaria dell'ente di San Giuliano Milanese, l'Ong per le adozioni internazionali oggi sotto inchiesta per non aver denunciato tempestivamente una banda di pedofili che realizzava film pornografici in Bulgaria e per aver omesso di segnalare un'organizzazione di trafficanti in Africa. Adesso hanno un nome, un volto, una voce. Oltre a Paola, parlano Giambattista De Mattia, Giovanni Conte, Giulia Fasano ed Eva Mannelli, padri e mamme adottivi. Sono le dieci del mattino di giovedì 18 maggio quando rivelano perché, insieme con un'altra cinquantina di famiglie, hanno denunciato Aibi e il suo presidente responsabile Marco Griffini, 69 anni. Spiegano perché ora lanciano un appello affinché altre coppie adottive escano allo scoperto. E ricordano perché pretendono che le istituzioni stiano dalla loro parte. Ad ascoltarli, c'è un solo parlamentare, Stefano Fassina, di Sinistra italiana.
LE LACRIME SUL CUSCINO
Hanno ragione: finora lo Stato ha dimostrato di non occuparsi di quello che hanno subito i loro piccoli, le minacce e le botte a Goma in Congo per costringerli al silenzio, i cuscini bagnati di lacrime al risveglio la mattina nelle nuove case in Italia per essere stati strappati ai loro genitori veri, ai fratelli, alle sorelle.
I genitori denunciano i traffici che hanno coinvolto i loro figli
I genitori denunciano i traffici che hanno coinvolto i loro figli
«Conoscevamo Aibi già da tempo», racconta Paola Zignone, «avevamo collaborato con loro per molti anni, ci piaceva il loro modo di lavorare, la loro mission, partecipavamo alle riunioni che facevano nella sede di Torino e addirittura siamo diventati volontari per guidare gli incontri informativi per le coppie che desideravano adottare dei bambini. La collaborazione ci portò alla naturale scelta di Aibi come ente per fare l'adozione internazionale. Furono mesi drammatici ma successivamente il 28 maggio del 2014 con l'aereo di Stato su cui volarono la ministra Maria Elena Boschi e il magistrato Silvia Della Monica, i bambini arrivarono in Italia. Fu una grande festa. Ma nei primi mesi che nostro figlio era arrivato in Italia, anziché vedere un bambino felice di questa sua nuova vita, avevamo davanti un bambino che soffriva, un bambino che piangeva di notte. Io trovavo il cuscino la mattina bagnato di lacrime. E mi diceva: mamma, io ho un segreto ma non te lo posso dire. E si vedeva che era spaventato. Capivamo che questa sua tristezza era segno che ci fosse qualcos'altro. A questo punto scopriamo la sua vera storia. Nostro figlio ha una famiglia in Congo, una madre, il padre e un sacco di fratelli a Goma e sorelle. Siamo sconvolti, non avremmo mai immaginato una cosa del genere. Non avremmo mai adottato un bambino con la famiglia, portandolo via dal suo Paese. Noi che abbiamo messo la faccia per anni per questo ente dicendo che mai e poi mai questo ente avrebbe fatto adottare un bambino che non era abbandonato. È vissuto in famiglia, a casa, a Goma, fino a un anno prima di essere adottato e improvvisamente si è trovato all'istituto Fed di Goma inserito nel circuito delle adozioni. Ma scappava dall'istituto. Il giorno della partenza per Kinshasa è scappato ed è andato a casa. Per essere sicuri che tornasse, hanno mandato il suo migliore amico a prenderlo con la foto dei suoi genitori adottivi in mano, implorandolo di partire perché altrimenti non avrebbero fatto partire nemmeno lui. E questa è la storia che piano piano nostro figlio ci ha raccontato».
Maria Elena Boschi in volo con i bambini adottati in Congo
Maria Elena Boschi in volo con i bambini adottati in Congo
«A questo punto», continua Paola Zignone, «pensavamo di essere soli e decidiamo di andare a Milano da Aibi, dalle persone che conoscevamo da tanti anni a raccontare quello che nostro figlio ci aveva raccontato. E per chiedere aiuto, consiglio. Ci incontriamo in un giorno di aprile del 2015. Ci accolgono il presidente e la responsabile dell'area Africa e un psicologa. Ci ascoltano. Ci dicono che la storia che nostro figlio ci ha raccontato è tutta falsa. Che sono solo fantasie dei bambini. Che è normale che si costruiscano una storia per vivere bene. Non ci crediamo perché nostro figlio non è un bambino piccolo, ha dieci anni, è molto pragmatico. Insistono che è una storia inventata. Quali fantasie? Qui vi stiamo informando che c'è una tratta di bambini. Continuano sulla loro piega che erano tutte fantasie. Ci salutiamo e ritorniamo a casa nostra. Ci sentiamo soli, abbandonati, perché ci sembra impossibile che ci siano altre famiglie in una situazione di questo genere. E per un bel po' di tempo lavoriamo in famiglia per riuscire ad andare avanti con questo peso nostro e di nostro figlio che probabilmente pensava che noi lo sapessimo, invece non era vero. A luglio del 2016, dopo che tutti gli altri bambini sono arrivati dal Congo, finalmente esce sull'Espresso l'articolo "Ladri di bambini". E ci si apre un mondo davanti. Scopriamo che non siamo soli. Scopriamo che purtroppo la situazione è di tante famiglie come la nostra. Ci ritroviamo al cento per cento in quello che viene descritto in questo articolo. E di conseguenza capiamo che è ora di fare la denuncia. Parliamo con nostro figlio, gli facciamo presente la situazione e decidiamo che deve essere fatta giustizia. Di conseguenza decidiamo di andare alla Cai, la Commissione per le adozioni internazionali. E quando arriviamo lì scopriamo che ce ne sono tanti altri in questa situazione».
«I MIEI GENITORI NON SONO MORTI»
Quella raccontata da Giulia Fasano è la storia della sua bambina. «Un giorno di fine aprile 2014 abbiamo ricevuto una telefonata dalla sede centrale di Aibi che ci comunicò che alcuni ribelli erano entrati nell'istituto dove si trovava nostra figlia e che dei bimbi erano spariti. Ci comunicarono tuttavia che nostra figlia stava bene perché si trovava a scuola nel momento dell'irruzione. L'ente ci disse che era necessario spostare urgentemente i bambini abbinati perché la situazione era pericolosa. Chiedemmo all'ente di essere ricevuti nella sede centrale per avere maggiori informazioni. Accettarono di riceverci dicendoci però che ci avrebbero concesso al massimo trenta minuti. Chiedemmo anche di comunicare immediatamente l'accaduto alla Commissione adozioni internazionali, ma ci fu risposto che era meglio aspettare in quanto la presidente (il magistrato Della Monica) era nuova e incompetente. Tornammo a casa preoccupati perché il fatto di non informare la Cai ci lasciava perplessi, lo ritenevamo grave. Decidemmo quindi di informare noi stessi dell'accaduto la commissione. Da quel momento in poi», rivela Giulia Fasano, «è cominciata la strategia di terrorismo psicologico con atti intimidatori nei confronti nostri e delle altre famiglie adottive. Finalmente nel 2016 nostra figlia arriva. Una felicità immensa. I primi tempi era timida e impaurita. Ci raccontava che i genitori erano morti lungo una strada a causa della guerra e che era stata ritrovata da una signora che l'aveva portata in istituto. Noi ci guardammo sorpresi perché il suo racconto non corrispondeva alla scheda di abbinamento fornitaci da Aibi».
Il presidente dei Aibi, Marco Griffini, posa da ministro
Il presidente dei Aibi, Marco Griffini, posa da ministro
«Poi un giorno, improvvisamente», aggiunge Giulia Fasano, «nostra figlia ci disse: non sono morti. Noi le chiedemmo a chi si riferisse e lei rispose che si riferiva ai suoi genitori. Cominciò a raccontare la sua vera storia, dicendo che aveva oltre ai genitori ancora vivi in Congo, anche fratelli in Italia da cui era stata separata e che erano stati dati ad altre famiglie. Chiedemmo qualche giorno dopo come mai si era tenuta questo segreto nel cuore e lei ci rispose che la maman dell'istituto l'aveva minacciata di non rivelare la sua storia e che se l'avesse fatto, sarebbe stata rimandata in Congo. Liberata di questo fardello, ora nostra figlia è molto più serena. Tuttavia continua a essere molto preoccupata per i suoi fratelli. Ironia della sorte noi avevamo scelto questo ente per le garanzie che davano sulle indagini svolte al fine di verificare il reale stato di adottabilità dei bambini. Riguardo a quello che ci era stato raccontato dell'irruzione della banda armata, lei ci disse che spesso i genitori venivano a riprendersi i figli in istituto. Ci racconta che anche sua madre veniva spesso a riprenderla, ma che determinate persone la riprendevano e la riportavano in istituto. Nostra figlia è stata minacciata e picchiata come i suoi fratelli e i suoi amici. Noi siamo inorriditi da tutto questo e siamo ancora più inorriditi dal comportamento delle istituzioni. Sentiamo parlare di storie inventate, di visioni, di bufale giornalistiche ed è per questo che siamo qui: per testimoniare la realtà di queste storie e chiedere alle istituzioni, al presidente della Repubblica e a tutti coloro che hanno a cuore l'onore delle istituzioni la tutela delle nostre famiglie, dei nostri bambini, siamo qui per chiedere giustizia e chiediamo la riconferma della dottoressa Silvia Della Monica a gran voce, perché è l'unica garanzia che questo lavoro venga completato».
«HANNO RAPITO VOSTRO FIGLIO»
Suo figlio, Giovanni Conte non l'ha mai abbracciato. «A Natale 2013 abbiamo ricevuto notizia che era stata emessa la sentenza in cui anche in Congo nostro figlio aveva preso il nostro cognome, quindi era figlio nostro, di fatto, legalmente. Passano sette mesi, il 23 aprile riceviamo una telefonata dalla sede di Milano (di Aibi) e veniamo convocati urgentemente per il giorno successivo a Roma per ricevere una comunicazione urgente che riguardava nostro figlio. Il giorno dopo andiamo e avviene, è incredibile, una videoconferenza in cui veniamo messi a conoscenza che era avvenuto un rapimento di nostro figlio, nel centro dove risiedeva, l'Spd di Goma. Questo rapimento era avvenuto da parte di una banda armata. E ci hanno detto che l'evento era accaduto a fine marzo, quindi erano già passati ventiquattro giorni e noi l'abbiamo saputo dopo ventiquattro giorni. È stato giustificato questo ritardo perché le autorità locali avevano chiesto del tempo per fare le indagini e avevano bisogno di discrezione, perché ipotizzavano un rapimento a scopo di riscatto. Sono state date rassicurazioni sugli sforzi degli operatori e delle istituzioni locali, per cercare nostro figlio e altri cinque bambini».
Madame Bénédicte, direttrice del centro del finto sequestro
Madame Bénédicte, direttrice del centro del finto sequestro
«La cosa incredibile», osserva Giovanni Conte, «è questa comunicazione: non è facile immaginare, però chi ha un figlio può pensare che ti venga comunicato in videoconferenza da un quadratino di dieci centimetri che tuo figlio è stato rapito da una banda armata... Mia moglie è scoppiata a piangere, io non avevo la voce per rispondere. Da Milano era arrivata la richiesta: ci sono delle domande? E io mi ricordo che chiesi con un filo di voce alla psicologa di dire che non avevamo la forza di rispondere, che ci saremo dovuti risentire. In quella sede ci è stato prospettato subito un nuovo abbinamento (cioè la sostituzione immediata del bambino). Ci prendiamo quattro giorni per rimettere insieme le idee. Abbiamo iniziato a chiedere a tutti quelli che potenzialmente potevano avere un contatto con l'ente e al di fuori dell'ente in Congo, le suore, i missionari. Il 28 aprile telefoniamo alla sede di Roma per chiedere un appuntamento urgente con la psicologa sul da farsi. L'appuntamento ci viene fissato per l'8 maggio. Quindi sono due settimane che passano per sapere qualcosa sul rapimento di nostro figlio. Il 5 maggio, avendo capito che la situazione era un'assurdità, inviamo una email a Roma e Milano in cui chiediamo un colloquio non in videoconferenza ma di persona. Arriva l'8 maggio e la psicologa dichiara di non avere avuto notizie. L'incontro viene incentrato sulla gestione del dolore. Usciti da questa seduta poco utile, vediamo che è arrivata una email della Cai con un protocollo, che invita le famiglie ad andare in Cai se sanno di qualcosa che non va. Noi in quel momento stesso chiamiamo in Cai e il giorno dopo veniamo ricevuti. Il giorno dopo era il 9 maggio. Questo è stato il primo momento in cui siamo stati accolti nella nostra sofferenza di famiglie allo sbando. Tanta è stata la fiducia che noi abbiamo presentato in quella sede una denuncia di quello che era accaduto. Dopo settantacinque giorni e altre vicissitudini, la Cai ci ha convocato e abbiamo saputo che non era vero niente, il rapimento non c'era mai stato ed era tutta una bugia. Vorrei chiudere facendo un appello. Vorrei fare un invito a quelle famiglie che si sentono isolate, che ancora vivono queste pressioni, di farsi avanti per far vedere che non sono sole».
SEQUESTRATI PER UN ANNO E MEZZO
I due figli adottivi di Eva Mannelli sono stati trattenuti per un anno e mezzo con altri sedici bambini, contro la volontà dei genitori e gli ordini delle autorità, in un orfanotrofio a Goma che risulta tra i centri della rete di Aibi.
I bambini con uno dei piloti che li hanno portati in Italia
I bambini con uno dei piloti che li hanno portati in Italia
«I nostri bambini sono stati gli ultimi ad arrivare in Italia», racconta la mamma, «nel giugno 2016, due bambini splendidi, solari. All'inizio è andato tutto bene. Un bel giorno di settembre viene fuori la prima falla nel sistema Aibi. I bambini parlano di un fratello di cui noi non sapevamo assolutamente niente. Abbiamo chiesto se il bambino era rimasto nell'orfanotrofio. No, no, mi dice, mamma il fratello è qui in Italia, è arrivato con noi. A quel punto siamo rimasti sconvolti da questa cosa. Tempestivamente abbiamo chiamato in Cai per capire se esisteva qualcosa di tutto questo. Purtroppo nessuno sapeva niente in quanto ai nostri figli e al fratello sono stati cambiati i dati anagrafici. Nome, cognome e quant'altro. Quindi era praticamente impossibile risalire a questa unione. Quando siamo venuti a Roma all'arrivo dei bambini, il fratello era in una stanza accanto con i bambini più grandi. Noi siamo venuti via con i nostri figli. Il fratello maggiore ci ha visti, ma non ha avuto la possibilità di salutarli né i nostri figli hanno detto niente perché erano stati obbligati a non dire niente. Quando erano a Goma, al centro Fed, gli era stato detto più volte che non dovevano comunicare come eravamo noi, della nostra famiglia, altrimenti i soldati venivano e li portavano via. Questo è quanto hanno dovuto sopportare due creature di sei e sette anni. Dopo aver comunicato alla Cai questa notizia sconvolgente di questo ulteriore fratello in Italia, siamo riusciti dopo un po' di tempo a trovarlo, li abbiamo fatti rivedere con una gioia immensa. Ci siamo trovati poi nel mezzo di una situazione dove la scheda era completamente, completamente voglio sottolineare, falsata. Completamente. Non c'era una virgola di verità. Anche questo ci ha ulteriormente devastati a livello psicologico. Nel periodo in Congo», aggiunge Eva Mannelli, «avendo dato mandato alla Cai che i bambini venissero spostati dal centro Fed, perché è in una zona di Goma molto pericolosa, a una struttura nella capitale più protetta, i nostri figli sono stati sequestrati dall'ente per diciotto mesi e sono rimasti al Fed. Per cui noi per diciotto mesi non abbiamo avuto lo straccio di una notizia».
L'INCARICO ALLA MOGLIE DEL PROCURATORE
Questi sono i fatti. Poi ci sono le istituzioni. A cominciare dall'autorità più alta destinataria di numerose denunce, il premier Paolo Gentiloni, attuale presidente della Cai, che per ora non ha voluto rinnovare l'incarico di vicepresidente al magistrato Della Monica che ha scoperchiato lo scandalo e fa sapere all'Espresso: «La vicenda dei bambini è una cosa, la vicenda della nomina è un pochino più complessa». E c'è l'autorità giudiziaria, con la moglie del procuratore di Milano, Laura Laera, presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze sulla soglia della pensione, in attesa che Gentiloni le dia il posto della collega Della Monica secondo un piano disegnato già nel 2016: Laera vicepresidente e la sottosegretaria Boschi presidente della Cai, la Commissione per le adozioni internazionali, che è un piccolo ministero degli Esteri dentro la Presidenza del Consiglio e anche l'autorità di controllo sugli enti autorizzati per le adozioni internazionali. Vista da una certa angolazione è come se il governo volesse dare a tutti i costi un incarico alla moglie di Francesco Greco, il procuratore milanese che è anche titolare delle indagini sulle adozioni di Aibi in Congo e sui rapporti di Aibi dentro le istituzioni. Greco è un gran tifoso della nomina di Laura Laera, tutti e due magistrati dal curriculum irreprensibile: «Esiste una commissione e questa commissione deve funzionare», dice il procuratore di Milano in una conversazione con "L'Espresso", dopo che Griffini il 22 febbraio scorso aveva annunciato prima di tutti, e accolto con soddisfazione, la candidatura di Laera e Boschi ai vertici della Cai: «Questa commissione non funziona. È sparita, si è clandestinizzata. Ma pare possibile che un organismo dello Stato non viene riunito e nessuno sa perché?», si chiede Greco, criticando severamente il lavoro della collega Silvia Della Monica, che secondo lui usa «metodi tra virgolette un po' mafioselli... attacca mia moglie per attaccare la Boschi».
L'inchiesta sul Congo eletta copertina dell'anno 2016
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In realtà non è la vicepresidente della Cai Della Monica a criticare il governo. Sono le famiglie che hanno denunciato l'ente di Marco Griffini a protestare con esposti e appelli perché, sostengono, il silenzio e le scelte di Paolo Gentiloni rafforzano Aibi. Griffini nel frattempo ha annunciato conseguenze legali milionarie per i genitori che l'hanno accusato. Mentre alcuni utenti anonimi di Twitter sono passati alle minacce: come quelle sulla capacità all'uso dei "ferri" e sull'addestramento mensile al poligono scritte a un papà adottivo che aveva accusato pubblicamente l'ente milanese.
IL PREMIO A CHI NON HA MAI DENUNCIATO
La Procura che sta indagando su Aibi dovrebbe sapere perché la Commissione per le adozioni internazionali non viene convocata. Ma evidentemente sfugge: Aibi, ente sotto indagine per presunte omissioni gravissime, siede per interposta persona nella stessa commissione di controllo che la dovrebbe controllare. E questo renderebbe illecita qualunque delibera, come hanno già denunciato alcuni enti alla Procura di Roma. Una irregolarità che a fine marzo Maria Elena Boschi ha reiterato invece che risolvere: con le deleghe di firma attribuitele da Gentiloni, ha infatti nominato nella Cai il rappresentante di un'associazione partecipata nel suo direttivo anche da Aibi. La sottosegretaria, aspirante presidente della commissione, ha così violato in un colpo solo due decreti che vietano le posizioni di incompatibilità, uno del presidente della Repubblica, l'altro del suo predecessore Graziano Delrio. E perfino l'interesse superiore dei bambini, inserendo in una importante autorità della Presidenza del Consiglio un ente che, stando alla testimonianza delle vittime, di fronte a pedofili e trafficanti non ha fatto quello che qualunque associazione o persona avrebbe dovuto fare. Una incompatibilità che l'attuale vicepresidente della Cai, Silvia Della Monica, il cui mandato è scaduto a febbraio ma può essere rinnovato, ha più volte segnalato nelle sedi istituzionali. E che nessun altro magistrato italiano, minorile o inquirente, ha invece osato denunciare. Quindi, a differenza del suggerimento di Gentiloni, la vicenda dei bambini e la vicenda della nomina appaiono piuttosto come la stessa cosa.
LA TELEFONATA DEL 24 MARZO
Il 24 marzo scorso un conoscente comune tra il presidente del Consiglio e chi scrive, telefona: «È capitato qualche giorno fa di incontrare sia Gentiloni che la Boschi», rivela: «E con toni pacati, parlando d'altro, mi hanno detto: guarda che le due vicende, cioè la vicenda dei bambini è una cosa, la vicenda della nomina è un pochino più complessa... E mi hanno spiegato un po' di cose interne riguardo a questo magistrato (Della Monica), alcune questioni che sono avvenute, alcuni comportamenti avvenuti all'estero, alcune problematiche diplomatiche che si sono create. Questo collegamento non è così. E il governo non vuole tirare fuori queste cose, nel senso di dire quali sono le motivazioni complessive. È una decisione che è stata presa indipendentemente dalla vicenda dei bambini, in una sorta di scadenza naturale e che noi (il governo) adesso ci vediamo attribuita come una volontà politica di difesa di una associazione... Mi hanno fatto capire che non è proprio così collegata. Ti ripeto, con toni molto pacati mi hanno detto che non è così. Non è una rimozione. È una scadenza su cui si è intervenuti per una serie di ragioni generali... La nomina non è legata a questo fatto. E tiene dentro tutta una serie di questioni di varia natura. Sono questioni credo avvenute su alcuni comportamenti tenuti all'estero da parte sua, in difformità degli ordinamenti giuridici internazionali. E quindi delle denunce che sarebbero arrivate da alcune situazioni in cui lei si è mossa utilizzando poteri che non sono attribuibili alla sua figura. Ci sono state delle contestazioni a livello del ministero degli Esteri di una certa importanza che Gentiloni ovviamente conosce in quanto prima era ministro degli Esteri. Pensare che Gentiloni possa fare una rimozione per questo motivo qui, conoscendolo, mi sembra difficile da sostenere».
GLI INFINITI POTERI
Al presidente del Consiglio e alla sua sottosegretaria possono aver taciuto alcuni dettagli. Ma da quello che risulta da una lettera di Marco Griffini del 9 gennaio 2015 e da una successiva mail del 14 gennaio all'ambasciatore italiano a Kinshasa, Massimiliano D'Antuono, è proprio Aibi a dettare la linea al ministero degli Esteri sui bambini trattenuti negli orfanotrofi dell'ente in Congo. Il tentativo evidente è di ostacolare i trasferimenti dei piccoli in luoghi più sicuri disposti da Silvia Della Monica e dall'autorità congolese su richiesta dei genitori italiani. E i desideri di Aibi, già sotto inchiesta, vengono fatti propri dal ministero degli Esteri, allora guidato da Gentiloni, evidentemente tenuto all'oscuro. Lo dimostra la comunicazione urgente non classificata diramata subito dopo, sempre il 14 gennaio, dall'ambasciata italiana alla Direzione generale italiani all'estero, alla Direzione generale mondializzazione e questioni globali, al gabinetto del ministro, alla Presidenza del Consiglio, al ministero dell'Interno e ad altri destinatari che certifica la versione spacciata dal presidente di Aibi: da quella comunicazione della Farnesina, passerà un anno e mezzo prima che i bambini vengano liberati, come conferma la testimonianza alla Camera di Eva Mannelli.
Palazzo Chigi, sede del governo
Palazzo Chigi, sede del governo
Quattro giorni dopo la telefonata del conoscente comune, il 28 marzo di quest'anno, Maria Elena Boschi, con i poteri di delega del presidente del Consiglio, nomina dentro la Commissione per le adozioni internazionali il rappresentante del "Forum delle associazioni familiari" ai cui vertici siedono due rappresentanti di Aibi. Un nuovo cortocircuito che rimette in gioco l'ente di Marco Griffini e i suoi infiniti poteri.
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19 maggio 2017 #adozioni, #adozionipulite, #aibi, Ladri di bambini, Senza